Proponiamo ai lettori del sito l’intervista di Nocturno fatta a Tomas in occasione del suo compleanno

INTERVISTA A TOMAS MILIAN
Il protagonista di tanti spaghetti-western e polizieschi ci racconta della sua nuova vita a Miami
Cosa fa Tomas Milian per il giorno del suo compleanno?
Parlo con te, che mi fa sempre bene al cuore (ride). Pensa, poco fa stavo mettendo a posto casa e ho trovato una lettera di compleanno di mia madre, pace all’anima sua. Una lettera che mi ha molto commosso. Risale a oltre dieci anni fa, quando lei è venuta a vivere qui a Miami, dopo che le avevo comprato la casa e le stavo pagando le lezioni di inglese. Anyway, sulla busta cera scritto: «Tomy you are a good boy!».

Ma tu sei un bravo ragazzo, lo dimostra l’affetto che il pubblico italiano continua a dimostrarti.
Sarò sempre grato all’Italia per l’amore che mi ha dato. Mi manca, sai? E mi manca ancora di più adesso che la mia adorata Rita non c’è più.

Eppure in Italia sei stato di recente, quando hai girato il film Roma nuda. Cosa ti ha spinto ad accettare questo progetto di Giuseppe Ferrara, dopo che hai rifiutato tante proposte ricevute da Roma?
Ti spiego perché: il produttore è stato molto furbo, ha coinvolto Quinto (Gambini, controfigura storica di Tomas Milian, ndr)… Tutti sanno il bene che voglio a Quinto… e se lo sono portati qui, a Miami. Io non potevo non ricevere Quinto, le porte di casa mia si sono sempre aperte per lui e loro erano dietro.

Non ti spaventava l’idea di tornare in Italia?
L’unica cosa che mi infastidiva è che mi trovassero invecchiato. Che mi vedessero vecchio e potessero dire: «Dio, che schifo!, quant’è vecchio!» Però mi salva il fatto che sono bravo (ride).

Come è stato l’arrivo qui?
Viaggiavo con l’America Airlines, stavo in prima classe e siccome sono diabetico non potevo mangiare il cibo che davano e non avevo chiesto del cibo speciale. Perché a me danno fastidio questi che vanno e ordinano il cibo speciale. Una stronzata mia. Allora ho cominciato a mangiare noccioline americane. Sono arrivato a Roma e mi sono cominciato a sentire male perché, avendo mangiato solo noccioline americane ed essendo diabetico, mi venne un coma diabetico che sono arrivato all’Excelsior quasi moribondo. Sembravo il Papa, perché hanno dovuto prendermi una sedia gestatoria, per portarmi verso la mia stanza. Ma poi sono riuscito a fare il film senza problemi.

Come è stato l’incontro con Giuseppe Ferrara?
Ferrara… Ferrara, Ferrara… Mi viene fuori soltanto la sua faccia bonaria, con i suoi occhi celesti, puliti, che nascondevano dentro una enorme violenza da fanatico comunista. Però allo stesso tempo, un uomo molto sensibile.

Come è stato tornare a Roma?
Beh, guarda, è stata una cosa commovente, commovente. I camerieri venivano in tre. Io ordinavo una cosa al room service, venivano in tre e quando stavo per andarmene sono venuti a regalarmi un bastone. Baci e abbracci, non ti dico, guarda. Tutti, tutti, non c’era una persona che non mi dimostrasse amore. E Roma, se io fossi stato un megalomane, un matto, nel vedere tutte le rovine, le statue romane, potevo pensare: «Questo l’hanno fatto per me! In onore mio». Roma era bella come non mai. Però non dirlo, perché la gente vuole che si dica che a Roma si sta male… Io in un certo senso adesso ero un turista, sono venuto per poco. E ogni sera era uno sturbo di bellezza.

Quale consideri il tuo “film americano”, quello che avresti sempre voluto fare quando studiavi all’Actor’s Studio?
Il mio film americano è senza dubbio Traffic… Ma c’è la disgrazia che è solo una “special apparence”… Invece in Washington Heights ero il protagonista. Era un film indipendente, con dei latini, non conosciuti. Il ragazzo protagonista, Manny Perez, veniva da una serie televisiva, ma non è che avesse la forza di attrarre le persone. Era un film veramente povero… E niente, ha fatto la fine che ha fatto. Poi è passato al dvd. L’unica soddisfazione per me è stata quella di poter avere il primo nome, come in Italia, di essere la star.

I tuoi rapporti con Hollywood come sono stati? Tu vivi a Miami e decidi di restare a Miami, anche se dopo Traffic avresti potuto tornare a Hollywood…
Non sopporto Hollywood, non posso, non posso… Volevo vivere tranquillo. Se c’era un film da fare, mi chiamavano per telefono, punto. Feste, cose, public relations… fuck it! No, non mi interessa. Frankenheimer mi chiamò per Ambush, dove mi diedero un sacco di soldi.

Ambush è un episodio per una serie di spot per la BMW firmati da registi come Frankenheimer, John Woo, Tony Scott, Guy Ritchie…
Nell’episodio ero il passeggero in macchina con Clive Owen, una specie di matto, nervosissimo, che aveva rubato i diamanti. E c’era un camion pieno di delinquenti che ci inseguiva. Mi ricordo che Clive Owen mi ha fatto ridere come un matto, la persona più simpatica che io abbia conosciuto. Lui è un angelo. Gioca a carte e punta tutti i soldi che guadagna, che sono tanti, nello chemin de fer.

Che ricordo hai di Frankenheimer?
Frankenheimer era un uomo, se posso adoperare l’aggettivo, divino. Ossia, era una persona eccezionale. A parte come regista, il suo know-how, quello che fa, la sua purezza… Era un uomo molto puro e molto intelligente. Sai che io non ho mai visto Ambush? C’ho lo storyboard, dove io faccio uguale a quello che lui ha disegnato. Ma era una produzione un po’ strana, perché era una specie di cinema spot, per la BMW. Sì, era un commercial… Io non avevo mai fatto commercial. Era un commercial di classe, con altri episodi diretti da altri registi importanti.

Dopo la parentesi di Ambush, torni al cinema con La fiesta del Chivo…
Sai che un critico che non mi conosce, qui, mi ha fatto una stupenda review, con solo una frase: diceva di essere rimasto allibito che l’attore, sconosciuto ai più, che ha interpretato il generale Salazar di Traffic, abbia fatto il personaggio di Ambush, di questo uomo così cretinotto. Ed era impazzito.

La tua capacità di passare da un ruolo all’altro è risaputa.
Sai, uno mi vede in Traffic e dice: «Questo è un figlio di mignotta che non finisce mai!» e tutto finisce lì. Però non puoi fare il mongoloide, capito?

Come arriva invece La fiesta del Chivo?
Il nipote di Mario Vargas Lllosa che aveva scritto il libro mi chiamò per prendere un appuntamento con me e dirmi che mi voleva come protagonista del film che ne sarebbe stato ricavato.

Tornavi così a fare un personaggio di una cattiveria…
Allucinante, allucinante… E secondo me, è tanto cattivo, e tanto veramente fatto bene, il personaggio, che la gente non lo sopporta e il film non ha avuto successo per niente. Il mio vicino di casa mi ha detto che ero bravissimo, però che ero “despicable” che vuol dire che ero insopportabilmente mostruoso. A tutti è piaciuto molto il finale. Un critico spagnolo ha scritto che gli ultimi quindici minuti del film erano un capolavoro. Ed era retto solo da me e dalla ragazzina. La tensione arriva da quando quello viene a dire al padre che il generale voleva avere una festicciola solo con la bambina. E il padre, in un certo senso, me la mette nelle braccia.

Sì, quella scena in cui tu, fisicamente ma anche psicologicamente, possiedi lei è agghiacciante.
Pensa che nel finale hanno tagliato una cosa che a me piaceva molto. Prima di tutto io ho fatto due versioni: una con le mani che vanno sul suo corpo e un’altra dove, invece delle mani così piatte, io facevo come se le dita fossero degli animaletti e ho cominciato a camminare con queste dita sul corpo di lei. Per eccitarla. E quella scena non l’hanno poi messa, giustamente. E poi nel finalissimo, io prendevo il fazzoletto, pieno di sangue, e glielo sventolavo in faccia incazzato nero: «Adesso portalo a tuo padre come prova che la missione è compiuta». La sua missione, perché in un certo senso ha venduto la figlia per lavoro.

Perché l’hanno tagliata?
Non lo so. Può darsi che l’hanno trovata eccessiva. Non era nel libro di Vargas Llosa. Ma tutto quello che hanno lasciato, l’hanno lasciato improvvisato da me.

Quanta libertà avevi sul set?
Totale, però non ho cambiato molte cose, perché lì Vargas Llosa era sempre attento a che io non forzassi la mano, con l’improvvisazione. Non me l’hanno mai detto, ma io lo sapevo. Ed era una gran rottura di coglioni, perché mi sentivo un po’ bloccato. Giustamente, perché bisogna bloccarmi, altrimenti vado troppo per la mia strada.

Ma tu come ti sentivi? Perché tu, quando diventavi un personaggio, vivevi sempre molto forte l’emozione di quel personaggio. Quindi, nel fare un personaggio così cattivo, come ti sentivi?
Beh, in un certo senso era Giulio Sacchi che diventa generale. L’ignoranza era uguale. La cattiveria esattamente uguale se non peggio. Però, era una cattiveria… libera. Giulio Sacchi era cattivo per il suo essere delinquente. Mentre questo è libero per il suo potere. Ha dentro di sé un Giulio Sacchi, però con il potere. Una cosa tremenda.

E adesso?
Adesso sto valutando il prossimo film, che sarà una sorpresa e che non voglio anticipare e mi godo i miei 80 anni. E poi dobbiamo fare uscire il nostro libro, Monnezza amore mio, che abbiamo fatto aspettare abbastanza i nostri lettori.

Manlio Gomarasca