TOMAS MILIAN: UN’AVVENTUROSA STORIA NEI GENERI (1)
Tomas Milian, dopo anni di assenza, si appresta a tornare in Italia per interpretare un film noir. Ecco una buona occasione per fare il punto sulla sua folgorante carriera nel nostro cinema bis…

Ti va se parliamo dei tuoi western, Tomas?
Certo, naturalmente!
C’è un film diretto da Jaime Jesus Balcazar, intitolato The Long Night of Tombstone – in America pare circoli anche come Night of Hate, con te e Fernando Sancho. Mi confermi che si tratta dello stesso film?
Sì. Il titolo originale era La lunga notte di Tombstone. Ma non è un western! È una specie di poliziesco-giallo ambientato ai giorni nostri, e parla di una rapina.
Il tuo primo western, quindi, dovrebbe essere The Bounty Killer…
Esatto. Arrivavo da cinque anni di film intellettuali in Italia e avrei voluto tornare in America, per continuare qui la mia carriera, ma non avevo soldi… Sempre la stessa storia, perché ero sotto contratto con Cristaldi che mi passava un’indennità annuale. Dovevo quindi cercare un film per fare quattrini e mi offrirono questo. Il mio personaggio sul copione era un messicano, molto bastardo ma senza che si capisse perché era tanto bastardo. Mi risultava ostico così, non lo capivo. Chiamai regista e produttore e dissi che l’avrei fatto solo a condizione che la cattiveria e la rabbia del messicano venissero spiegate e proposi di inserire delle motivazioni sociali e quindi psicologiche che giustificassero il suo odio verso la vita. Ed è appunto questo il personaggio che ho interpretato.
Un altro personaggio curioso era l’albino di Sentenza di morte…
Sì, il film di Mario Lanfranchi, un regista di opere liriche che quando veniva sul set sembrava camminasse sulla merda. Anche questo lo feci per soldi. Ho fatto un sacco di soldi nella mia carriera ma ne ho spesi anche un sacco (ride). A dire la verità, i casini economici sono stati quelli che mi hanno fatto vivere come attore, perché mi spingevano a lavorare.
L’albino epilettico del film era nella sceneggiatura o anche in questo caso fu una tua aggiunta?
Era una mia idea. Un po’ tutti i caratteri che ho creato dipendevano da me. Pensa solo ai Monnezza… L’unica eccezione fu il personaggio di Boccaccio ’70 di Luchino Visconti, che era l’unico ad avere perfettamente in testa il personaggio che voleva. Sentenza di morte non l’ho mai visto: ho sempre cercato di seguire una linea nella mia carriera e questo film fu un compromesso. La mia agente spinse per convincermi a farlo. L’unica cosa buona è che mi diedero mano libera per la definizione di questo albino e credo di averlo caratterizzato in maniera efficace. Sul set mi ricordo che c’era Ali McGraw che faceva la calza: era la fidanzata dell’attore americano del film…
Il grande duello è stato il tuo più grande successo commerciale qui in America… Hai avuto un buon rapporto con Lee Van Cleef?
Era piuttosto distaccato, non molto socievole. Una bella persona, ma con molti problemi allo stesso tempo. Ho rispettato la sua privacy. Te la ricordi la scena in cui mi buttano nel porcile? Beh, ti dico la verità: quella in cui sono cascato era merda vera! Lì in mezzo c’erano fango, merda di maiale, merda di vacca e rifiuti andati a male. Non mi avevano chiesto di buttarmi in mezzo a quello schifo, perché dicevano che mi sarei preso qualche malattia. La scena, però, lo richiedeva e non c’era il tempo di preparare del fango finto usando la cioccolata perché la “grande star” ci potesse cadere dentro. Così, mi sono buttato in mezzo alla merda vera.
Hai mai avuto a che fare con Sergio Leone in quegli anni?
Una volta mi ha chiamato e gli ho detto no. Mi aveva offerto una parte che non mi piaceva, perché era un personaggio orribile.
Molti dei western che tu hai interpretato avevano echi politici…
Certo, c’era sempre un messaggio politico nei migliori western che ho fatto. Tepepa, che ho girato insieme a Orson Welles, aveva un sottofondo politico molto forte. Ed era stato scritto da uno sceneggiatore politicamente molto orientato, Franco Solinas.
Ho notato che in O’ Cangaçeiro il plot è abbastanza simile a quello di Tepepa. Ugo Pagliai e John Steiner hanno ruoli sovrapponibili nei due film, mentre lei è in entrambi i casi un diseredato che conquista la leadership della Rivoluzione…
Certo. O’ Cangaçeiro era scritto da Bernardino Zapponi, che aveva sceneggiato i film di Fellini. Mentre Tepepa era stato scritto da Ivan Della Mea, in collaborazione con Franco Solinas, che fece La battaglia di Algeri. Era una grande sceneggiatore, Solinas.
Ma O’ Cangaçeiro era una sorta di remake del precedente film di Giulio Petroni?
No. Ricordo di avere combattuto una lotta tremenda con il produttore di questo film… una lotta! E non l’ho vinta. Volevo girare la prima parte con la barba e il produttore diventò isterico. Gli usciva la schiuma dalla bocca tanto era incazzato, perché voleva che io fossi senza barba all’inizio del film, così sembravo più giovane e il pubblico avrebbe visto il passare del tempo.
Hai girato sia Tepepa sia O’ Cangaçeiro nel 1969?
No, Tepepa è del ’68 – durante la rivoluzione hippie. Io ho fatto la mia rivoluzione nei film… Sono stato anche un hippie: molte cose erano hippie nella mia vita e anche nei miei personaggi, che talvolta mi portavo a casa dopo che il film era finito. E diventavo sempre un pochino quel che avevo interpretato.
Prima citavamo Orson Welles: è stato complesso lavorare con lui?
Molto difficile. Ma anch’io sono una persona molto difficile. Così, ci fu una piccola lotta di ego. Sono un tipo di attore che mette tutto quel che ha in ogni film, come se si trattasse sempre del film più importante del mondo. Nella mia carriera, se dovevo fare qualcosa che veniva considerato un B-movie, il modo in cui lo affrontavo era lo stesso che se fosse il più importante degli A-movies. Era anche frustrante, perché spesso il regista non era molto bravo. Tenti di mettere il massimo di serietà e di professionalità in un lavoro, ma ti tocca vedere che tutto questo non viene recepito, che non gliene frega niente. Questo è il mio temperamento, d’altra parte, e da qui nascevano le difficoltà. Perché cercavo di obbligarli a prendere il mio impegno seriamente. A Orson Welles non fregava evidentemente un cazzo di venire in Spagna a fare un western con questo giovane attore, Tomas Milian. Evidentemente veniva solo per i soldi. Ma per la mia dignità, io volevo che lui si comportasse come se credesse allo script e al film. Cominciò ad essere davvero difficile la cosa e ho avuto una discussione con lui.
Tepepa so che è uno dei tuoi western favoriti…
Sì, lo è, ad eccezione della sequenza in cui John Steiner mi uccide conficcandomi un’arnese nel cuore. Ci sono due riprese: un piano medio in cui sono perfetto, e poi un close-up che venne fatto subito dopo il pranzo. A quell’epoca non avevo il potere di obiettare che il mio stato d’animo non era lo stesso della ripresa precedente. E mi sono sentito tradito, perché sono stato costretto a girarla. Rimasero due differenti stati d’animo nella stessa scena. Quando Tepepa uscì in Messico (sono molto critici se gli stranieri trattano la loro storia), ho saputo che il pubblico alla prima si alzò in piedi e applaudì. Erano molto orgogliosi di questo film.
Ti piace Faccia a faccia?
No, non mi piace perché era molto difficile lavorare con Gian Maria Volonté, pace all’anima sua. Il mio personaggio, che si suppone fosse molto violento prima che inizi la storia del film, appare già dimesso. Così, il personaggio di Volonté ha uno sviluppo, una progressione, mentre il mio resta debole, passivo. Si dice che io sia un famoso bandito, ma il bandito nel film non lo vedi mai. Per questo non amo Faccia a faccia.
Se sei vivo spara! è certamente uno dei western più violenti e controversi che hai girato. Che rapporto hai con questo film?
Credo che il regista, Giulio Questi, facesse una cosa sua. Era come lavorare con Antonioni, in un certo senso, perché Questi è un intellettuale rivoluzionario. È stato aiuto regista, sceneggiatore, tutto. Diresse questo film in collaborazione con Kim Arcalli, uomo molto intelligente e montatore di Novecento e Il conformista, di Bertolucci. Era un genio! Ed era molto amico di Questi. Lavorarono praticamente insieme in Se sei vivo spara! e Arcalli montò il film.
Nel film c’è una violenza molto esplicita per l’epoca. La scena in cui vieni torturato è quasi identica a quella in Beatrice Cenci, di Fulci…
I registi italiani amano torturarmi, perché sono uno molto difficile (ride).
Corri, uomo corri era una continuazione della storia di Cuchillo…
Faccia a faccia era stato un grosso successo e così decisero di dargli un seguito. Non mi piace molto, a dire la verità.
Com’è stato lavorare con Susan George in La banda J & S, storia criminale nel Far West?
Era un’attrice fantastica, fantastica! Successe una cosa che ti voglio raccontare, a proposito di questo film. Il produttore mi aveva promesso sessantamila dollari di extra – che erano una barca di soldi allora – quando il film fosse uscito in America. Ma non mi disse che il film era effettivamente uscito in America. Un giorno, qualcuno mi fece sapere che lo proiettavano in un cinema della 42 strada, a New York City. Io chiamai il mio agente, William Morris, e gli domandai cosa dovevo fare: «Va in quel cinema, fotografa i manifesti e chiedi al padrone del locale di farti una lettera in cui dichiara che proietta il tuo film». Vado allora sulla 42 alle oto di sera e mi dicono che il padrone sarebbe arrivato alle 11,30. Torno alle 11,30, fotografo l’entrata col manifesto e chiedo di incontrare il boss del locale. Avevo i capelli lunghi, come nel film, e la barba. Questo qui viene fuori con un sigaro in bocca, hai presente?… grasso, grosso e io gli dico: «Sono l’attore del film che lei sta proiettando»; «Fuori dalle balle!»; «Ma senta, guardi il manifesto e guardi me!»; «Vedi di levarti dai coglioni!» Insomma, mi buttò fuori, io non vidi i miei soldi e il produttore finì in prigione. Non per questo, ma perché doveva quattrini a mezzo mondo. Si chiamava Roberto Loyola.
Ti doppiavi sempre da solo?
Hai toccato un tasto molto delicato. Nella prima parte della mia carriera non mi doppiavo, perchè il mio italiano non era buono. Ho cominciato a doppiarmi quando ho cominciato a fare i western, con l’eccezione di La resa dei conti, che abbiamo fatto in inglese. Poi mi sono doppiato in italiano nella Luna di Bertolucci, con cui ho vinto un Nastro d’Argento. E mi sono doppiato anche in Identificazione di una donna, di Antonioni. Il doppiaggio è anche il motivo per cui ora lavoro in America, dove il doppiaggio non esiste. I film che ho fatto negli ultimi cinque anni in Italia, li ho accettati a condizione di doppiarmi da solo nella versione inglese e nelle produzioni inglesi, come Salomé in cui facevo Re Erode, Gioco al massacro, con Elliott Gould, Una casa a Roma, con Valerie Perrine e tutti i film americani che sto interpretando qui. Non voglio più lavorare in un film italiano se mi devono doppiare. Questa è la ragione per cui lavoro in America. Basta compromessi.
Cosa mi racconti di Franco Nero, con il quale ha lavorato in Vamos a matar compañeros?
Era molto attento alla sua immagine, Franco. Ricordo che quando andavamo al trucco, lui ci restava anche per tre o quattro ore, perché il truccatore gli disegnava delle rughette intorno agli occhi e gli faceva dei riflessi dorati nei capelli. Doveva avere ventitre o ventiquattro anni allora e io gli domandai: «Franco, perché vuoi sembrare più vecchio dell’età che hai?»; «Perché quando avrò cinquant’anni il pubblico mi vedrà sempre uguale. Non voglio invecchiare perchè non voglio mai smettere di fare l’attore». Non è incredibile? Franco è comunque una delle persone più belle e “pure” con cui ho lavorato, un uomo eccezionale. C’era una scena in Compañeros in cui Franco era in bilico su una botte, con le mani legate dietro la schiena e la corda al collo. Io dovevo salire su un palo e slegarlo ma a quel punto mi era venuta voglia di fargli uno scherzo, sapendo quanto lui tenesse al suo look. Mentre scioglievo il cappio mi sono messo a cantare una canzoncina, che inventavo lì per lì: «Beautiful eyes… blue like the sky». Intanto prendevo le sue palpebre e le sollevavo fino a mostrare il bianco dell’occhio Franco era terrificato, perché il suo pubblico stava vedendo il bianco dentro i suoi splendidi occhi azzurri. Così cantavo la mia canzone e aprivo i suoi occhi il più possibile. Quella notte Franco non riusciva a dormire e non lasciò dormire nemmeno Sergio Corbucci: «Sergio, ti prego, lasciami rifare la scena… Non ho avuto il coraggio di fermarlo. Tomas Milian mi sta rovinando: è pazzo!». Amo moltissimo Franco, che persona stupenda!
Ti sei trovato bene anche con Giuliano Gemma?
Anche lui è una persona meravigliosa. Sono stato molto sorpreso di trovare un attore come lui in Il bianco, il giallo, il nero, dove facevo un ispanico/giapponese.
Questo personaggio lo hai interpretato in diversi film. Ad esempio, Delitto al ristorante cinese…
Sì, ero figlio di una madre giapponese e di una madre spagnola. Giuliano un giorno mi disse: «Tomas, cerca di dare il massimo per far ridere il maggior numero di persone possibile! Perché più fai ridere le persone meglio è per me e per il film». Mi diede il massimo della cooperazione. Davvero una persona meravigliosa.
Il cast era davvero una combinazione straordinaria, ma il film ha deluso un po’ i tuoi fans…
Questo è il motivo per cui non ho mai avuto un enorme successo, perché quando i fans hanno cominciato ad amare troppo qualcosa che io facevo io gli sferravo come un pugno nello stomaco, interpretando un ruolo completamente diverso e loro dicevano: «Oh, mio Dio!». Non mi volevano vedere conciato in quel modo. Ma io li preparavo, perché non potevo essere un eroe per sempre. Ecco perché ho fatto i due Provvidenza. Il primo doveva essere solo un western da ridere, ma poi successero talmente tante cose surreali sul set – come quando mi “trasformai” in un uccello – che il film diventò qualcosa di diverso. Il secondo era ancora più “selvaggio”: incominciai a cantare, a danzare, a farne di tutti i colori.
L’ultimo western italiano che hai girato è I quattro dell’Apocalisse…
Era uno dei tre film che ho fatto con Lucio Fulci, tra i quali il migliore secondo il regista era Beatrice Cenci. Nei Quattro dell’Apocalisse facevo una partecipazione speciale di soli dieci giorni. Quando ho cominciato a diventare famoso in Italia, mi chiamavano spesso a fare queste partecipazioni. I quattro…, più che un western era un film di Lucio Fulci: lui amava quel genere di cose, la violenza intendo. Ma era una persona geniale Lucio, e io avevo un particolare feeling nel film. Di quel set ricordo Michael Pollard, che aveva fatto Bonnie & Clyde e che ha giocato un ruolo fondamentale nella caratterizzazione del mio personaggio, e Fabio Testi. La cosa buffa è che io avrei dovuto fare Il giardino dei Finzi Contini con De Sica, ma ero impegnato con un western. Mi avrebbero dato un sacco di soldi ma ho pensato: «Perché dovrei fare questo film indossando pantaloncini corti e facendo lunghe partite di tennis, quando posso tornare in Almeria e fare quello in cui il pubblico mi vuole vedere?». Fabio ha poi fatto al posto mio il film e da quel momento è esploso. È una persona dolcissima, più salutista di una farmacia, ma con un grande senso dell’humour.
Dopo i western sei passato ai polizieschi…
Si, ho capito che il genere cominciava a stancare e così ho pensato che bisognava inventarsi qualcosa di nuovo, di più attuale. E mi sono detto: «Perché non cambiare il cavallo con la motocicletta e fare un western metropolitano ai giorni nostri?». Quello che mi serviva erano un produttore e un regista che credessero in me in questo nuovo genere. Così quando Stelvio Massi, un direttore della fotografia che voleva esordire alla regia, venne da me con il copione di Squadra volante, accettai subito di farlo, anche per un compenso minore del solito. Sapevo che sarebbe stato un successo e non mi sbagliai. I miei fan cominciarono ad amarmi anche come eroe di polizieschi…

Manlio Gomarasca