Tomas Milian a Cuba, si chiude un cerchio

L’Avana, 30 novembre 2014

Dopo circa 60 anni, Tomas Milian torna a L’Avana, città dove nacque il 3 marzo 1933. Torna per ricevere un omaggio preparato dalla Cineteca di Cuba che include una retrospettiva di film nei quali ha partecipato durante la sua carriera.

Tomas Quintín Rodríguez-Varona Milian Salinas De La Fé y Alvarez De La Campa, lasciò Cuba a 21 anni con l’obiettivo inderogabile di diventare attore. La prima cosa che fece appena arrivato a New York fu presentarsi all’Actor’s Studio, e lì gli dissero che avrebbe dovuto perfezionare il suo inglese. Dopo un breve tempo nella Marina nordamericana, dove migliorò la lingua, tornò all’Actor’s Studio, fece due audizioni e lo selezionarono fra 3.000 aspiranti. Entrò lì definitivamente  il 18 dicembre 1957. Fino ad oggi è stato l’unico cubano ad esserci riuscito. Quel giorno ricevette il primo applauso della sua vita.

Ciò che avvenne dopo è pieno di particolari: Italia, Francia, Mauro Bolognini, Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni; Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci; Hollywood, Sidney Pollack, Oliver Stone, Steven Spielberg, Steven Soderbergh.

Tomas Milian, a 81 anni, è un uomo molto vitale. Dimostra grande senso dell’umorismo con un marchio inconfondibile della sua “cubanità”, caratterizzato dai frequenti “ecco” e “anyway” che sono impressi nel suo linguaggio. Ha confessato di sentirsi molto felice di essere all’Avana, che ha trovato quasi uguale rispetto a quando l’aveva lasciata.

SM: Nell’incontro con la stampa, con i cineasti e con gli specialisti lei ha affermato che da giovane era “retama de guayacol”, ovvero un poco di buono. Come può un uomo che ha lasciato il suo Paese ormai da 60 anni senza averne fatto ritorno fino ad oggi, dire una frase così cubana in un modo così organico e naturale?

TM: Non l’avevo mai detta da quando me ne sono andato da Cuba, però essere qui ora mi sta tirando fuori “el cubano, el bichito”.

SM: Ha detto che ha trovato L’Avana come l’ha lasciata?

TM: Sì, perchè ho trovato tutto quello che cercavo, tutto quello che significava qualcosa per me, Ci sono ancora le case, diroccate, ammuffite con il passare del tempo, però sono rimaste lì.

SM: Fino ad ora, per il poco tempo che ha potuto parlare con i suoi connazionali come si sente?

TM: Sto parlando con cubani come me, e mi fa piacere; osservo in loro un po’ di curiosità (nei miei confronti) ma anche di tenerezza, in…

SM: Lei li ispira

TM: Grazie, grazie. Sono felice, sono contento. Mi sembra un sogno, mi sembra come se domani potessi svegliarmi e nulla di questo sia vero, perchè adoro questa accoglienza che mi è stata data, adoro vedere le mie fotografie in esposizione, è la prima volta che mi succede ed è tutto nuovo per me.

SM: Come è arrivato alla cultura dell’India?

TM: Sono arrivato in India durante un viaggio nel quale ero disperato, in un periodo nel quale facevo una vita molto irregolare, credo che se avessi continuato su quella strada non sarei finito bene; lessi una volta su una rivista italiana di un guru e così lo dissi a mia moglie. Lo sai Rita? Me ne vado in India a trovare questo Guru che dicono faccia miracoli, e a me solo un miracolo può salvarmi.

Così andai a trovare il guru per farmi aiutare perchè io con la religione cattolica non…, però ho questo sentimento religioso che mi aiuta a vivere pensando che ci sia qualcosa dopo che possa guadagnare con la pazienza, dolore o quello che sia.

Però nell’essere umano succede qualcosa durante i momenti di disperazione nei quali credi di non poter andare avanti e non sei così pazzo da ucciderti, come fece mio padre. Credi che quest’ uomo, questo guru possa curarti, però non è l’uomo, è il viaggio che fai, Così distante, così difficile, così doloroso che quando arrivi a inginocchiarti ai suoi piedi, questo gesto di umiltà, di disperazione, questo pianto che ti viene quando lui si ferma smettendo di camminare, e ti tocca la testa, ti cura. Perché sai che lui ti ha notato. E il nuovo pianto di allegria e commozione, non è niente di più che fede, perchè lui è un uomo come te che si è lasciato crescere i capelli, e usa una tunica arancione e cammina così lentamente che sembra che cammini fra le nuvole. Così ti senti nel cielo insieme a lui che ti cura: però sei tu che ti curi, con fede e amore.

SM: Queste fotografie sono una prova di quella cura?

TM: Ecco, sono uscite proprio per questo. Un giorno lì in India, avevo nelle mani una camera fotografica e vidi una macchia su un muro e così la fotografai. Mi piacque molto la sensazione di dipingere con i miei occhi una cosa che stava lì per caso, cosicché più tardi cominciai a cercare altri muri sporchi che mi fecero dipingere senza dipingere, cioè dipingere con gli occhi, le tracce del tempo, e le continuai a trovarle a Roma, Venezia, New York e Miami. Queste sono alcune foto tratte dal mio libro ‘Muri’ che sono esposte nel Centro di Promozione Cinematografica del ICAIC.

Quando cominciai, mi innamorai di quei muri e far l’attore era passato in secondo piano, Era come se avessi trovato un nuovo modo per “esprimermi”; però è una bugia perché è stato un momento nel quale ho sentito la necessità di fare queste foto. Ma è durato poco, giusto un momento, perché mai sono tornato a fotografare. La cosa non mi interessa.

SM: Dei tantissimi registi di cinema con i quali ha lavorato nella sua lunga carriera, da quale ha maggiormente imparato?

TM: Imparare…, cioè, io sono un attore, e nemmeno all’Actor’s Studio imparai niente. Non so, io sono un attore e lo sono da quando sono nato, io credo che uscire dall’utero di mia madre sia stata una mia esibizione, un grido di dolore, che ha segnato tutta la mia vita.

SM: Lost City, diretta nel 2006 dall’attore cubano-americano Andy Garcia, soffre di molte imprecisioni storiche, però nonostante ciò, riesce a ricreare un’ambientazione cubana, soprattutto riguardo all’ambiente familiare, al quale senza dubbio ha contribuito il suo ruolo come Don Federico Fellove. Come ha costruito questo personaggio? Ha preso come modello qualcuno della sua famiglia?

TM: Sì, mio nonno era così, era un patriarca. Si sedeva a capotavola con intorno tutta la famiglia. Sì, mi è venuto in mente. Avevo ricordi di dove sono cresciuto, ed è stata una cosa molto emozionante; soprattutto nella scena dove siamo tutti a tavola ad aspettare Andy. Lui arriva, io gli ricordo l’ora e lui mi da un bacio in testa; non mi sono potuto controllare ed ho incominciato a piangere, perché Andy è una persona molto tenera, è molto affettuoso e non è falso, è vero, e inoltre tutto era vero nella scena, i mobili, le cose, la famiglia, anche io. Mi sono commosso tanto.

SM: La scena dell’addio di suo figlio che fugge negli Stati Uniti è altrettanto vera, ma lei non ha vissuto la separazione delle famiglie cubane che se ne andavano negli Stati Uniti.

TM: Però ho vissuto quel momento, nella pellicola, perché sentendomi come mio nonno non mi stavo inventando nulla; se io non me ne sono andato da Cuba, se io non sono emigrato in momenti come quelli, io sono emigrato con questo film e tutto quello che lei ha visto è stato davvero sentito sulla mia pelle; per questo ho cominciato a piangere, A volte era così reale la situazione che non potevo…Inoltre l’addio, gli abbracci, il pianto della tua sposa… Tu stai cercando di non piangere, ma piange tuo figlio che se ne va…, no, no…

SM: Com’è stato lavorare sotto la direzione del suo compatriota Andy Garcia?

TM: Con Andy tutto era molto reale, anche l’acqua di colonia della Guerlain che stava sul tavolo di notte in un’altra scena, dove io sto nel letto che parlo con lui. L’ho portata da casa mia, ma era una piccola boccetta. Ne avrei dovuto portare una grande perchè in realtà nel film non si vede, ma a me bastava sapere che c’era.

Andy è una persona pura, di grande gentilezza ed è un cubano di razza, di quei cubani di Pinar del Río. Non so perché, ma da quella terra proviene gente tanto buona.

Ti racconto un particolare nella direzione di Andy: in una scena un personaggio entra in un bar e chiede un caffè. Glielo portano in un bicchierino di plastica. Allora io lì ho detto: “Oddio, ma cos’è ‘sta roba?”

SM: Allora andavate d’accordo, fra cubani?

TM: Sì, come no, ma poi, chi è che non va d’accordo con Andy? Siamo amici, non c’è bisogno che ci vediamo, nè che ci chiamiamo, questa è una relazione per tutta la vita, fa parte dei miei ricordi, di me, della mia famiglia.

Ho chiesto ad Andy una canzone che a me commuove molto perché mi ricorda i miei nonni: si intitola Venti anni, di María Teresa Vera. Lui la mise nel film per farmi contento.

Mi sono trovato molto bene nel fare questo film che è stato come chiudere un cerchio della mia vita, non l’ultimo perché ancora continuo a chiudere cerchi…

SM: Sarà questa visita a Cuba un altro cerchio che si chiude nella sua vita?

TM: Certo, questo è un altro cerchio importante che si chiude.

Per gentile concessione di Susana Méndez Muñoz di “Progreso Semanal”

Traduzione: Giuseppe Montagnese